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Modella

di Keith Donato

“… da qualche parte la perla mi sarà consegnata…”

Sulla strada. (J. Kerouac)

1.

Guardava distratta intorno a sé, quelle stesse pareti ruvide che erano le mura della sua casa ormai da un anno, non aveva mai notato la varietà dei colori, dalla macchia di fuliggine lasciata dal radiatore, all’ombra ruggine del lavello, le bolle fragili d’intonaco giallino parevano disegnare figure fantastiche che giocavano ad inseguirsi fra le crepe mentre, sotto alcune di esse, si poteva ancora vedere il pallido colore rosato della vecchia dipintura.

I mattoni “a vista” della volta tradivano l’umidità e mentre fuori pioveva, Giulia, seduta, passava una mano fra i capelli, nel gesto di raccoglierli semplicemente ma con studiata lentezza, si fermava poi ad arricciarli fra le fragili dita, ciocche scure come la brace e lucenti d’olio profumato, le lasciava poi ricadere disordinate sulle spalle e sulla fronte; appariva buffa come una di quelle ballerine spagnole da carillon, la musica, quella non sarebbe mancata.

Sparse alla rinfusa sul tavolo della cucina, decine di foto, un album con troppe pagine bianche, il Martini dry ed il posa cicche cubano che sapeva stranamente di mare…

Chiedersi il perché non avrebbe cancellato niente di quella che era iniziata nulla più che una prova, per gli altri e per sé stessa, in un gioco per grandi, senza imposizioni, s’intende, ma anche senza limite alcuno… si guardava adesso nelle polaroids sfuocate, risentiva le voci ed i rumori, il ronzio freddo del flash che sfarfallava libero nella camera penetrare in ogni dove, brillare sui ferri lucenti, specchiarsi nei riflessi lucidi del cuoio.

- “Pronto? … Giulia, sei tu?”

- “…Sì certo, ma…

 

…bird has flown… bird has flown…

 

…Uscivano soffocate dalla vecchia radio, una Vox sixties posata sul mobiletto vicino alla finestra, mentre una serie di trentatré giri erano belli allineati ai suoi piedi…

Intanto, la voce dall’altro capo del telefono le ricordava, come se ce ne fosse stato bisogno, i momenti di piacevole paura, di nascosta felicità, per non rovinare il gioco di calde mani e…

- “…Giulia, ci sei?”

- “Sì, scusami…”

- “Allora?”

- “Allora cosa?”

- “Ma come, cosa? …Ieri, non ricordi, le foto a casa di quell’amico…”

… Oh sì, quell’amico, il sofà stile "impero" di morbida pelle scura, il polveroso tappeto di lana nel salotto, ricorda, il mucchio d’abiti sparsi a terra, sul cotto consumato, i flashes che ad intervalli illuminavano punti prima ignorati, angoli, spigoli luccicanti e vetri colorati, il calore di un corpo estraneo ed il suo odore, forte, dolciastro, miscela di sudore e fumo francese; ricordava tutto, Giulia, le mani, le quattro mani, che la toccavano ovunque. Quella carne bianchissima e pallida, le dicevano tanti, appariva ora infiammata, segnata da larghe escoriazioni, estese sulla schiena, sui glutei, fino sulle cosce e poi, ancora sul seno; mentre una manica lunga, nascondeva i segni lasciati intorno ai polsi e, più sotto, alle caviglie, mentre imbarazzata sistemava un cuscino sotto il sedere.

 

2.

“Entra”, la casa era immersa nel buio, a fatica avanzava tenuta per mano da Carlo, fra le vesti sparse per il corridoio… “vuole solo fare qualche foto… non preoccuparti, e poi ti fidi di me, no?”… certo che si fidava Giulia, Carlo era un caro amico, l’aveva sempre aiutata nel suo lavoro grazie alle conoscenze che aveva… distingueva appena i contorni delicati della cornice liberty appesa di fronte a lei, dei ritratti severi in bianco e nero, dai tratti spigolosi, ora, la figura seduta nella gran poltrona si era alzata e veniva verso di lei.

- “Piacere, signorina…?”

- “Giulia”

Li fece accomodare sul sofà mentre lui tornò, lento, verso la poltrona dove si lasciò cadere mollemente ed iniziò:

“…Giulia, lei sa per quale motivo è qui, immagino…”

“Sì, certo, Carlo mi ha detto per delle foto”.

L’uomo, allora, rise di gusto, stiracchiandosi tutto.

“Mi scusi…” aggiunse, “credo le abbia tralasciato qualcosa”.

Disse di lavorare per un importante rivista del settore “bdsm”, che era stanco delle solite modelle asiatiche, fredde ed inespressive, voleva dare al dolore un viso caldo ed angelico come il suo… Giulia, udite quelle parole, sentì come una voragine aprirsi nello stomaco e se ne sarebbe andata immediatamente ma, Carlo, le strinse con inaspettata forza il braccio, tirandola a sé. L’uomo si alzò pesantemente dalla poltrona, avanzò, la guardò per un istante, un corpo morbido e rotondo, magnifico nella sua maturità di quarantenne, un incarnato scuro, proprio delle genti arabe, una mora dai capelli sapore nocciola…

“Forza, principessa, è ora d’iniziare”.

Di peso, la fece alzare dal divanetto e lei, incapace di fare la pure minima resistenza, guardò Carlo che, come se nulla fosse, sorrise forzatamente di fronte alle maniere spicce del padrone di casa. Trascinata al centro della stanza, stava col capo chino, incapace di guardare il viso unto di quell’individuo. Una maschera trasformata dal sudore e dal grasso che scendeva, deciso, per fermarsi fra le pieghe del collo tozzo mentre con una mano le stringeva i polsi e, con l’altra, era impegnato a toccarla ovunque, pesantemente, segnandole la pelle nei punti più delicati.

“Perché non ti levi la camicetta? …vediamo un po’ queste due pere…”.

Eccitato, allungò una mano verso la scollatura azzardandosi a slacciare i primi due bottoni poi, un dolore violento ed improvviso al ventre lo bloccò. Approfittando dell’attimo, Giulia sferrò decisa una ginocchiata liberandosi dalla presa: malferma, corse verso la porta ma le scarpe alte che ancora calzava la fecero cadere lasciandola lunga e distesa davanti alla cassettiera.

“Brutta puttana! Così fai la furba? Adesso t’insegno io ad essere più obbediente”. Il grassone, ancora dolorante per la botta subita, l’aveva subito raggiunta afferrandola per il vestito. “Su, in piedi” ordinò tirandola per un braccio ed assestandole uno schiaffo sul viso piangente.

Carlo, per tutto il tempo, era rimasto sprofondato fra i lucidi cuscini del divano, provando un piacere che mai, fino allora, pensava in grado di soddisfarlo a tal punto… la gioia di guardare, dell’essere tranquillo spettatore delle sue fantasie più nascoste, scivolose e grasse, vive fra le pieghe secche delle cuciture come la pelle che lisciava col palmo della mano. La resa si leggeva chiaramente sul volto segnato a fissare la terra, dalle gote paonazze, vividi contorni cremisi nell’insieme olivastro della carnagione di quell’ovale così perfetto; i capelli scarmigliati fino sugli occhi, qualcuno agli angoli della bocca lucente appena dischiusa, un volto di Madonna trecentesca, sofferente. Con una mossa rapida, la camicetta fu letteralmente strappata tanto che, Giulia, fu come scossa, tale la forza, da cadere in avanti fra le braccia del suo carnefice. Lo avvolse in un abbraccio caldo ed innaturale, abbandonata ai fremiti brevi e decisi che sentiva, a tratti, percorrerle tutta la schiena, quasi fuggendo, per un attimo, da quella casa. L’orco cattivo, la spinse verso il mobile, cingendola come s’adopera con le bestie furenti, ansante per la voglia di femmina, posava le mani ora sui fianchi, ora fra le gambe, in maniera frenetica, finché non fu nuovamente interessato alle generose forme del seno.

Duro, sfrontatamente spinto in avanti, offerto alle dita callose dell’uomo che lo soppesava come si usa fare con le merci preziose, e in fondo di questo si trattava, due calde lune del piacere, olivastre, pungenti come il rosmarino e rotonde come arance sicule, era teso e scosso da brividi freddi per la paura e la tensione che avevano vinto sugli sforzi mirati a mantenere un’impressione di calma, seppure minima. Il suo interesse si soffermò soprattutto sui capezzoli, li tirava ora in un verso, ora nell’altro, e ben presto furono rossi e dolenti; a stento, Giulia tratteneva le lacrime. Distaccata e fredda si mostrava, per quanto poteva, indifferente.

“Sei una stupida… una stupida puttana”.

Esasperato dal suo comportamento, la spinse contro il tavolo, piegandola in avanti, poi, a fatica, fece risalire la gonna sui fianchi. Non era facile, vista la generosità delle cosce e la fattura della gonna stretta, meglio così, pensava, sarebbe stato tutto più piacevole...

Giulia, scalciava minacciando inutilmente il suo aggressore.

“Carlo, vieni, la tua amica si agita un po’ troppo…”.

Carlo si alzò e si distese sopra di lei bloccandola col suo peso. Guardava il sedere dell’amica a due palmi dal suo naso, grosso, dalle forme larghe e generose, ma non cadente anzi, teso e sodo come quello di una ragazzina, una di quelle che tante volte aveva desiderato, come l’ultima volta quando lei, sul più bello, aveva rifiutato assicurando che era “sporco” e da “animali”… chissà se ora pensava la stessa cosa, adesso che stava per essere punita, ora che la gonna era raccolta in vita e soltanto le sottili mutandine di cotone difendevano le sue intimità…

L’omone, però, impaziente, cercò subito l’elastico del minuscolo indumento e lo tirò verso il basso fino alle ginocchia, per poi dedicarsi ad assaggiare la consistenza e la tonicità delle natiche… “Ehm…, niente male…” fu l’unico commento e si alzò dirigendosi verso la credenza.

Giulia, per un istante, aveva smesso di agitarsi inutilmente, di strillare rabbiosa, facendo così scivolare sulla scena che la vedeva sfortunata – o forse fortunata? – protagonista dell’insolito silenzio, un’attesa pesante che le riportava alla memoria quando sua madre la stendeva sulle ginocchia per punirla di qualche dimenticanza e delle scene d’imbarazzo che seguivano nei giorni successivi.

Voltando la testa, lo vide tornare con un fascio di rametti in mano: somigliava ad uno scopino, solo più lungo e formato da sottili quanto robusti ramoscelli di salice.

Li fece sibilare. I primi colpi arrivarono secchi e decisi, spaccando il nudo silenzio, colmando d’urla e lividi di pura ed inaudita evidenza, del susseguisi di uno, dieci, cento infiniti segni profondi, tracce di viva passione, calde, scottanti quanto laceranti e d’intensa fisicità.

Avvertiva il calore risalire lungo la schiena, aprirsi la strada sotto la pelle, risuonare amplificato mille volte nella carne viva, più profonda, crescere ad ogni colpo mentre lei vibrava fra le braccia di Carlo ed il suo sedere assumeva sempre più un colore acceso, dal pallido incarnato di quando era stato messo a nudo, all’erubescente striatura delle natiche che luccicavano nella penombra per il sudore e le stille di colore rubino. Questo, non aveva fatto altro che renderla consapevole del proprio piacere - dolore, del suo bisogno d’essere battuta come una cagna per sentirsi “viva” e porre fine alle sue paure adolescenziali.

3.

- “Giulia, sei ancora lì?”

- “… Eh? Sì…, Carlo, stavi dicendo…?”

- “Domani ci sei o no, sai, per quelle foto a casa di Steve?”

Carlo attendeva una risposta, una qualsiasi, forse, qualcosa che avrebbe tradito l’eccitazione di Giulia, la sua voglia di sentirsi ancora una volta la monella dispettosa bisognosa di cure, il piacere del calore infiammarla…

- “Allora…?”

Prese un post-it ed una penna.

- “Passa alle quattro”. Ed appese. Mentre usciva, lasciò il biglietto giallo sullo specchio nell’ingresso:

“Non aspettarmi per cena, mamma, scusa… Giulia”.