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Cappuccio Scarlatto ovvero Sedere Rosso

di Paul Stoves

(da un’idea di C. Perrault)

 

C’era una volta, in un villaggio della campagna inglese, una bella ragazza, una delle più graziose femmine che fosse dato di vedere nella contea. I genitori l’adoravano e, ancor di più, una vecchia amica di famiglia. Quest’anziana donna, Edmea, le aveva confezionato con le proprie mani, un portafortuna che era costituito da una sorta di lungo copricapo assemblato con un bel tessuto damascato di colore rosso. Siccome Elisabetta, così si chiamava la ragazza, lo indossava sempre, tutti, nella contea, la soprannominarono Cappuccio Scarlatto.

Un bel giorno, sapendo che la sua anziana amica era a letto malata, Elisabetta pensò di recarsi a trovarla portandole dei dolci ed altre gustose leccornie.

La buona donna, abitava in un altro paese e la madre di Cappuccio le raccomandò, anche se la strada era più lunga, di non transitare dalla foresta che era frequentata da gente di malaffare.

Elisabetta, che da tempo non era più sculacciata, non ricordando il bruciore sulle sue rotonde natiche era molto incline a disobbedire, per fare più in fretta, imboccò il sentiero del bosco.

Dopo una decina di minuti, Cappuccio incontrò un signore che immediatamente manifestò il desiderio di toccarle il culo e strizzarle le tette ma, essendoci nelle vicinanze alcuni contadini, si limitò a chiederle dove stesse andando di bello.

Elisabetta, dimenticando che è pericoloso parlare agli sconosciuti, raccontò a questo piacente signore dove stava andando.

Ricevute le informazioni necessarie, il signore salutò Cappuccio e, attraverso una scorciatoia e correndo a perdifiato, giunse lestamente alla casa dell’anziana donna.

Cappuccio, invece, continuò sul suo sentiero: anzi, si fermò pure un paio di volte per raccogliere un bel mazzo di fiori di campo e per mangiare i profumati frutti del bosco.

Nel frattempo, il signore giunto a casa dell’anziana donna si era fatto aprire dalla stessa, spacciandosi per il medico della mutua. Dopo aver finto di visitarla, aveva chiamato un’ambulanza e l’aveva fatta ricoverare all’ospedale di York togliendosela momentaneamente dalle palle.

Poi, truccatosi come solo lui sapeva fare e resosi incredibilmente simile alla donna, s’infilò sotto le coperte ed attese nella penombra l’arrivo della ragazza.

Cappuccio suonò alla porta.

“Chi è?”, rispose l’aitante signore.

“Sono Cappuccio Scarlatto…, sono venuta a trovarti e ti ho portato alcune cose… aprimi”.

“Spingi l’uscio ed entra, cara… sarai anche stanca per tutta la strada che hai percorso… appoggia le tue cose e vieni a riposarti un poco…, dai, stenditi nel letto accanto a me…”.

“Ma che braccia lunghe hai…”

“Caro Cappuccio, per meglio stringerti al mio petto…”

“Ma che orecchie grandi hai…”

“Piccola Elisabetta, per sentire meglio…”

“Ma che mani enormi…”

“Disubbidiente monella, per sculacciarti meglio!”.

Così dicendo, scese dal letto, si sedette sul bordo dello stesso e si prese sulle ginocchia Elisabetta che, sbalordita, non seppe proferire alcuna parola. La gonna scozzese fu rapidamente sollevata e rimboccata sulle spalle. Agli occhi dell’aitante signore apparvero allora due splendidi, simmetrici, sferici globi gemelli velati da un sottile paio di provocanti mutandine in pizzo bianco, talmente leggere, impalpabili e trasparenti da lasciare intravedere la lunga e profonda fessura mediana che separava quelle paffute natiche fatte apposta per essere sculacciate.

Non seppe resistere ulteriormente e la prima serie di sculacciate cadde con ritmo lento ed inesorabile sul culetto impertinente della mocciosa. Elisabetta, invece di piangere e gridare come un’ossessa, cominciò subito a mugolare, dimostrando di ben gradire il trattamento a lei riservato; più le sculacciate cadevano secche, più sfregava il suo rasato monte di venere sulle cosce dell’aitante signore che era ormai in preda ad un’incontrollabile erezione.

Ben presto, umori collosi di profumata ciprina colarono dalle grandi e piccole labbra della ragazza infradiciandone le mutandine.

La mano di lui, che tra una sculacciata e l’altra, giustamente esplorava in mezzo alle cosce della ragazza, trovando l’indumento intimo così zuppo, pensò bene di eliminarlo. Provvide quindi, immantinente, alla progressiva e lenta discesa dell’ultima difesa della ragazza. Le mutandine percorsero le cosce, raggiunsero le ginocchia, proseguirono sino alle caviglie e caddero sul pavimento.

Elisabetta, col culo scarlatto quasi quanto il suo cappuccio, si dibatteva come un’ossessa sotto le cocenti sculacciate; no, non per il dolore, ma per il gran godimento che queste le provocavano.

Quando la mano sculacciatrice, stanca, scivolò nella fessura della ragazza, la porca indecente spalancò quanto più le fu possibile le cosce mettendo in bella mostra il suo tumido sesso nonché il buchetto posteriore.

L’aitante signore provvide all’immediato riempimento di entrambe le aperture oscenamente pulsanti, introducendovi le sue lunghe dita ossute e nervose.

Dopo questo doppio, innaturale ed estenuante ditalino, Cappuccio si lasciò scivolare sul pavimento proprio mentre il cazzo dell’aitante signore, in preda ad un orgasmo meraviglioso, eruttava copiosi fiotti di bianco sperma, filante e colloso, nelle mutande.

Entrambi soddisfatti, si abbracciarono e, tornati a letto si addormentarono profondamente dopo aver fatto l’amore selvaggiamente.

Nel frattempo, Edmea – l’anziana amica d’Elisabetta che era stata ricoverata per errore – chiarito l’equivoco, fece rientro nella sua abitazione dove trovò la coppia d’amanti, in braccio a Morfeo.

Edmea, perfettamente ristabilita da quello che si era rivelato un modesto malessere passeggero, realizzò immediatamente quanto era successo e con quale burla fosse stata buggerata. In un lampo meditò la sua vendetta.

Pensando che la mente organizzatrice di tutta la farsa fosse Cappuccio, ella si munì di un robusto battipanni di vimini - sì, proprio quello che aveva usato tante volte per sculacciare Elisabetta - ed iniziò a percuotere l’irriverente culetto della ragazza, già di colore scarlatto causa la recente sculacciata, con secchi e precisi colpi, alternati su di una natica e sull’altra.

Non sto a tediarvi descrivendovi il concerto che ne scaturì e di quanto fu soddisfatto l’aitante signore. Posso solo assicurarvi che alla fine, Edmea, resasi conto che tutti e tre avevano gli stessi interessi – chi in un modo, chi in un altro – decise che questi incontri istruttivi e educativi, si sarebbero intensificati.

Quando nella contea si seppe di quest’episodio, Cappuccio Scarlatto fu rinominata Culo Rosso, con gran gioia per tutti.